Il
5 maggio 1981 dopo 55 giorni di sciopero della fame, moriva un EROE.
Ventidue anni fa, esattamente all’alba del 5 maggio 1981, si
spegneva dopo 55 giorni di sciopero della fame nel lager inglese di
Long Kesh, Bobby Sands. Un nome, il suo, che nell’immaginario
di qualsiasi uomo libero rappresenta ancora oggi una delle vette più
alte di resistenza umana e politica all’oppressione mai raggiunte
nella storia moderna. Adesso voglio ricordare questo straordinario
combattente per la libertà non soltanto attraverso il ricordo
cronachistico della sua vicenda umana e politica, ma soprattutto attraverso
le sue poesie, l’opera letteraria e militante che Sands ci ha
lasciato. Poesie e riflessioni scritte su foglietti di carta fatti
uscire clandestinamente dal carcere e divenuti negli anni un testamento
sempre attuale e struggente di un uomo che ha scelto la morte come
estremo gesto di integrità: la redenzione e il riscatto attraverso
la nobiltà del sacrificio. Bobby Sands ha vissuto ogni istante
della sua prigionia, ogni attimo di tortura come una sfida umana,
ideale e militante ad un dominio, quello britannico, che non si limitava
all’occupazione del suolo irlandese ma anche al controllo e
alla privazione della libertà dei cittadini non unionisti.
Sands, morendo, ha ripetuto la frase con la quale annunciò
l’inizio del proprio sciopero della fame: «Sono qui per
morire, non per vincere». Parole che hanno tracciato un solco
lungo il quale è cresciuta la coscienza politica e sociale
nordirlandese: se l’Ulster oggi può, ancora con difficoltà,
parlare di pace è perché uomini come Bobby Sands lo
hanno reso possibile con il proprio sacrificio.
Perché, per dirla con Bobby, «tutti,
repubblicani o meno, hanno la loro parte da compiere» Bobby
Sands nacque a Rathcoole, nell’Irlanda del Nord, nel 1954. A
sedici anni era già un attivista del movimento repubblicano
e per questo motivo venne arrestato nel 1972 e condannato a quattro
anni di carcere speciale a Long Kesh. Tornato in libertà nel
1976 Bobby Sands apre una sede del Sinn Fèin a Twinbrook, un
quartiere popolare di Belfast dove vive insieme alla propria famiglia.
Poco tempo dopo, fonda con altri compagni di lotta un giornale di
controinformazione, An Phoblacht, che presto gli garantirà
la stima e l'appoggio dell’Ira e dell’intero movimento
repubblicano. Nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente
incarcerato proprio all’apice della campagna di counter-insurgency
volta a criminalizzare ogni forma di militanza repubblicana, violenta
e non. Dopo avergli negato lo status di prigioniero politico, le autorità
britanniche lo rinchiudono nel famigerato blocco H di Long Kesh, un
vero e proprio “braccio della morte” divenuto tristemente
famoso per l’indiscriminata applicazione di torture sia fisiche
che psicologiche. In carcere si mette immediatamente alla testa dei
“blanket men”, gli uomini della coperta, che protestano
contro i maltrattamenti subiti quotidianamente (tra i quali il bagno
bollente seguito all’applicazione di disinfettante sulle piaghe,
percosse. perquisizioni corporali e privazione del sonno) e per ottenere
il riconoscimento dello status di prigioniero politico. Il movimento
di protesta capeggiato da Sands raggiunge il proprio culmine nel marzo
1981, quando dieci detenuti appartenenti all’Ira (e due all’INLA)
iniziano uno sciopero della fame a oltranza. Bobby Sands è
il primo ad intraprendere questo sciopero, gli altri si uniscono a
intervalli costanti nei giorni successivi.
All’esterno,
l’appoggio di massa all’iniziativa dei prigionieri diventa
immediatamente fortissimo, tanto che nel mese di aprile Sands viene
eletto parlamentare a Westminster come Indipendente nelle liste del
Sinn Fèin per la contea di Farmanagh. Nonostante tutto questo
e l’interessamento diretto della Chiesa cattolica e del Vaticano,
l’allora primo ministro britannico Margareth Thatcher continua
a rifiutare crudelmente qualsiasi forma di dialogo con i detenuti
in sciopero. Nel frattempo le condizioni fisiche dei prigionieri si
deteriorano rapidamente: il 5 maggio 1981, dopo 55 giorni di rifiuto
del cibo, Bobby Sands muore stringendo tra le mani il crocefisso d’oro
inviatogli personalmente dal Papa, un gesto che Londra non perdonerà
mai al Santo Padre. Nei giorni immediatamente successivi anche altri
nove scioperanti morirono (Francis Hughes, Raymond McCreesh, Patsy
O’Hara,Joe McDonnell, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty,
Thomas McElwee e Michael Devine), mentre altri furono salvati da un
canale di dialogo aperto dalla diplomazia internazionale e dall’intervento
delle madri che fecero valere il proprio diritto a imporre l’alimentazione
forzata. L’odissea umana e politica di Bobby Sands è
stata conosciuta e ammirata dall’opinione pubblica attraverso
i resoconti cronachistici ma soprattutto attraverso il diario che
Sands scrisse nella sua cella e fece uscire clandestinamente dal carcere
sotto forma di biglietti che i compagni di prigionia non soggetti
a restrizioni totali consegnavano sottobanco ai parenti durante i
colloqui. Le lucide e drammatiche descrizioni della carcerazione e
dei soprusi, le dolci e struggenti poesie, le riflessioni politiche
del guerrigliero indomito sono divenute una pietra miliare della letteratura
militante: Un giorno della mia vita, il titolo scelto per la pubblicazione
del diario di Sands, è stato letto e riletto da intere generazioni
in Irlanda e nel mondo. Meno famosi, ma certamente non meno importanti
per conoscere l’avventura umana di questo moderno martire, sono
i Canti di libertà da Long Kesh, brevissimi racconti in presa
diretta intervallati da riflessioni sulla vita, la lotta del popolo
irlandese, ma anche gli affetti familiari e la libertà intesa
come bene supremo e insostituibile dell’uomo. La prima parte
dei Canti è dedicata alla descrizione psicologica della quotidiana
lotta contro i soprusi, le violenze, l’umiliazione e la solitudine
di un uomo che ha deciso di restare fedele alla propria dignità
e ai propri principi.
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Ma
anche le degradanti e inumane condizioni di detenzione trovano spazio
nelle pagine dei Canti, laddove Sands racconta che «il pavimento
della mia fossa è tappezzato da una sostanza molliccia, putrida,
della quale mi sfugge la natura. C’è un puzzo rivoltante
che ristagna nell’oscurità e l’aria è calda,
pesante e densa. All’angolo c’è qualcosa di soffice
e umidiccio, forse un giaciglio dove sdraiarsi... Mi sta spiando. La
porta si apre un’altra volta. Pian piano la luminosità
fioca lascia il posto ad un illuminazione scarsa che annuncia la presenza
della figura in uniforme nera. “Sissignore “, scandisce
minacciosamente “ecco il rancio, 1066”. Mi sbatte una scodella
nelle mani e chiude la porta rabbiosamente. Prima che la luce svanisca
del tutto riesco ad intravedere qualcosa: cumuli di immondizia e sporcizia
di varia natura sparsi dappertutto sul pavimento, un esercito di vermi
abbarbicati alle mie gambe e le pareti coperte da una massa di mosche
grasse e tronfie. Il panico ha di nuovo il sopravvento e comincio a
camminare nervosamente su e giù per la cella atterrito da ciò
che mi circonda. La ciotola che ho in mano, ormai fredda, contiene una
zuppa d’avena annacquata, o qualcosa di simile, che emana un odore
disgustoso, la abbandono per terra e nel buio fitto riprendo il mio
cammino senza fine che mi conduce negli abissi più profondi della
disperazione».
Ma
oltre alla disperazione per il degrado fisico e morale della detenzione,
nelle poche pagine dei Canti è presente anche la lucida descrizione
della violenza fisica, del sopruso, della tortura e del terrore che
accompagna ogni minimo rumore, ogni luce inaspettata, ogni scricchiolio.
«Fai conto di essere costantemente in questo stato mentale: hai
la certezza che da un momento all’altro potresti essere tempestato
di botte fin quasi a perdere i sensi, lavato con la forza e piegato
contro la tua volontà per l’ennesima perquisizione anale.
Sono queste le pratiche più frequenti della vita di tutti i giorni
nel blocco H. E' impossibile riuscire ad immaginare cosa provi un ragazzo
di diciotto anni quando una dozzina e più di secondini lo massacrano
di percosse, calci e pugni mentre, nudo, viene trascinato per i capelli
lungo un corridoio o quando li stessi strizzano le sue parti più
intime fino a farlo crollare fisicamente o gettano acqua bollente sul
suo corpo nudo. Io stesso non riesco a descrivere, figuriamoci voi ad
immaginare, il nostro stato mentale proprio mentre restiamo seduti ad
aspettare che avvenga tutto questo. La tortura fisica e psicologica
dei blocchi H ha condotto molti uomini sull’orlo dell’infermità
mentale». Ma per sfuggire a questo lento massacro dell’io
e del corpo, Sands ed i suoi camerati si aggrappano, oltre alla loro
ferrea determinazione, alle poche cose che li potessero mettere in contatto
con il mondo esterno, con la realtà, con quella libertà
che per difendere si vedono negata in celle fetide e maleodoranti. Una
finestra, il volo di un’allodola e la speranza di potersi svegliare
per contare un altre giorno strappato alla violenza e alla tortura,
un altro giorno strappato all’arroganza del potere e al suo meccanismo
distruttivo, un altro giorno di resistenza.
«Quante
volte mentre il tempo scorre lento, mi soffermo a guardare gli uccelli
e seguo il fruscio dell‘ allodola cercando di individuarla in
quella massa blu, immobile sopra di me, che rappresenta la pienezza
dell’esistenza. E io desidero fortemente la libertà dell’allodola.
Suppongo che per molti di noi qualche uccello, il canto di un‘allodola,
cielo limpido o la luna piena restino inosservati per la maggior parte
del tempo. Per me invece signifìcano vita, pace, conforto, compagnia,
qualcosa che si offre al mio sguardo e che mi aiuta ad allontanare la
brutalità delle torture, l’infamia e la violenza che di
continuo assediano la mia vita. Proprio oggi i secondini hanno cominciato
a sbarrare le finestre con le lamine d’acciaio. E' un ‘ulteriore
fortuna: nascondere l’essenza stessa della vita, la natura ! In
questo carcere i miei torturatori cercano da tempo di sbarrare la finestra
della mia mente». Uno
sforzo che la Storia ci ha dimostrato essere stato vano: Bobby Sands
è stato e rimane l’esempio più alto di trionfo della
libertà umana e individuale di fronte alla brutalità del
potere.
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Questo
articolo apparve sul giornale "An Phoblacht/Republican News"
il 3 febbraio 1979, a firma di Marcella, lo pseudonimo usato da Bobby
Sands. "Una volta mio nonno mi disse che imprigionare un'allodola
è uno dei crimini più crudeli, perché l'allodola
è tra i simboli più alti di libertà e felicità.
Sovente parlava dello spirito dell'allodola, riferendosi alla storia
di un uomo che aveva rinchiuso uno dei suoi tanto amati amici in una
piccola gabbia. L'allodola, soffrendo per la perdita della sua libertà,
non cantava più a squarcia gola, né aveva più nulla
di cui essere felice. L'uomo che aveva compiuto tale atrocità,
così come la definiva mio nonno, esigeva che l'allodola facesse
ciò che lui desiderava: cioè cantare più forte
che poteva, obbedire alla sua volontà, cambiare la sua natura
per soddisfare il suo piacere e vantaggio. L'allodola si rifiutò.
L'uomo allora si arrabbiò e diventò violento. Cominciò
a far pressioni sull'allodola affinché cantasse, ma inevitabilmente
non ottenne alcun risultato. Così ricorse a mezzi più
drastici. Coprì la gabbia con un telo nero, privando l'uccello
della luce del sole.
Le fece patire la fame e la lasciò marcire in una sporca gabbia,
eppure lei si rifiutò ancora di obbedirgli.
Alla fine l'uomo la uccise. Come giustamente diceva mio nonno, l'allodola
possedeva uno spirito: lo spirito di libertà e di resistenza.
Desiderava ardentemente essere libera e morì prima di essere
costretta ad adeguarsi alla volontà del tiranno che aveva cercato
di cambiarla con la tortura e la segregazione. Io sento di avere qualcosa
in comune con quell'uccello, con la sua tortura, la sua prigionia e
la morte a cui alla fine andò incontro. Possedeva uno spirito
che non si trova facilmente neppure tra di noi, i cosiddetti
esseri superiori, gli uomini. Prendete un comune prigioniero. Il suo
obbiettivo principale è quello di rendere il suo periodo di detenzione
più facile e confortevole possibile. Un comune prigioniero non
metterà mai a rischio un solo giorno di condono. Alcuni arriveranno
persino ad umiliarsi, a strisciare e a tradire alteri detenuti, pur
di salvaguardare se stessi o accelerare il proprio rilascio. Costoro
obbediranno alla volontà di chi li ha catturati. Diversamente
dall'allodola, canteranno ogni qualvolta verrà chiesto loro di
farlo e salteranno ogni qualvolta sarà loro ordinato di muoversi.
Sebbene abbia perduto la sua libertà, un prigioniero comune non
è disposto a giungere alle estreme conseguenze per riacquistarla,
e neppure per difendere la propria dignità di uomo. Si adegua,
in modo tale da garantirsi un rilascio a breve scadenza. Se invece rimane
in carcere per un periodo abbastanza lungo, alla fine diviene un prodotto
dell'istituzione, una sorta di macchina, non più in grado di
pensare con la propria mente, sotto il pieno potere e controllo di chi
lo ha incarcerato. Nella storia che raccontava mio nonno questa era
la fine che avrebbe dovuto fare l'allodola. Ma lei non aveva bisogno
di cambiare, nè intendeva farlo, e morì
affermando proprio questo. Tutto ciò mi riporta direttamente
alla mia situazione: sento di avere qualcosa in comune con quel povero
uccello. La mia posizione è in totale contrasto con quella di
un prigioniero comune che abbia deciso di conformarsi alle regole: io
sono un prigioniero politico, un combattente per la libertà.
Allo stesso modo dell'allodola, anch'io ho combattuto per la mia libertà,
non solo in carcere, dove ora mi trovo a languire, ma anche fuori, dove
il mio paese è tenuto prigioniero.
Sono stato catturato e incarcerato, ma, come l'allodola,
anch'io ho visto cosa c'è al di là delle sbarre della
mia gabbia. Ora mi trovo nel blocco H, dove mi rifiuto di cambiare per
adeguarmi a coloro che mi opprimono, mi torturano, mi tengono prigioniero
e vogliono disumanizzarmi. Al pari dell'allodola non ho alcun bisogno
di cambiare. E' la mia ideologia politica e i miei principi che i miei
carcerieri vogliono mutare. Hanno distrutto il mio corpo e attentato
alla mia dignità. Se fossi un prigioniero comune mi presterebbero
pochissima, o addirittura nessuna attenzione, ben sapendo che mi conformerei
ai loro capricci istituzionali.
Ho perso oltre due anni di condono. Non me ne importa nulla. Sono stato
privato dei miei vestiti e rinchiuso in una cella fetida e vuota, dove
mi hanno fatto patire la fame, picchiato e torturato. Come l'allodola,
anch'io ho paura che alla fine possano uccidermi. Ma , oso dirlo, allo
stesso modo della mia piccola amica possiedo lo spirito di libertà,
che non può essere soppresso neppure con il più orrendo
dei maltrattamenti. Certamente posso essere ucciso,ma, fintantoché
rimango vivo, resto quel che sono, un prigioniero politico di guerra,
e nessuno può cambiare questo. Non abbiamo forse molte allodole
in
grado di dimostrarlo? La nostra storia ne è stata costellata
in maniera straziante: i MacSweeney, i Gaughan, gli Stagg. Ce ne saranno
altri nei blocchi H? Non posso concludere senza terminare la storia
che raccontava mio nonno. Una volta gli chiesi che cosa era accaduto
all'uomo malvagio che aveva imprigionato, torturato e ucciso l'allodola.
"Figliolo", disse, " un giorno cadde lui stesso in una
delle sue trappole, e nessuno gli prestò aiuto per liberarsi.
La sua stessa gente lo derise e gli voltò le spalle. Egli divenne
sempre più debole e alla fine stramazzò al suolo, per
morire sulla terra che aveva fatto marcire con così tanto sangue.
Arrivarono gli uccelli e si presero la loro vendetta cavandogli gli
occhi, e le allodole cantarono come non avevano mai cantato prima."
"Nonno," gli chiesi, "il nome di quell' uomo non era
forse John Bull ?"
Marcella
Blocco H - Long Kesh
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